Marzia de Tavonatti. IL PESO DEL VUOTO

Dal 27 gennaio al 3 marzo 2024

Una mostra

Con il patrocinio del Comune d’Iseo

E il supporto di Poliedro Studio

 

Il peso del vuoto
Per spiegare la trasformazione della realtà e il mutamento dei corpi, Democrito nel 400 a.C. circa, sentì la necessità di ipotizzare l’esistenza del vuoto, di un ‘non qualcosa’, del nulla inteso come spazio. Pose gli atomi alla base della composizione della materia, il
sostrato indivisibile. Nel vuoto gli atomi si muovono, si incontrano e si scontrano.
Nel corso dei secoli, il vuoto rimane uno tra i concetti più enigmatici, pervasivi del pensare, sempre attuale pur nel mutare delle concezioni fisiche e filosofiche e si delinea sempre più come un altro nome dell’essere.
Il vuoto come concezione del movimento, del divenire, del tempo.
Nello scritto ‘Il vuoto: un’enigma tra fisica e metafisica’ si ipotizza che il nulla non sia di per sé ‘vuoto’ ma consista, usando il linguaggio della fisica contemporanea, in uno ‘stato di di minima energia’, uno stato fondamentale che riempie uniformemente lo spazio e con
il quale alla fine coincide.
L’Apeiron di Anassimandro, che consente l’esistenza e il dinamismo di tutti gli elementi nel tempo, la Chora platonica, un elemento primordiale oscuro ed indivisibile, il Sein di Heidegger come trasparenza che fa vedere, attrito che fa muovere, intero che rende
possibile la parte, l’etere della millenaria tradizione fisica e metafisica come sostanza che pervade tutto l’universo e dentro la quale si muovono i corpi, compresa la luce.
Ed infine, in contrapposizione al pensiero filosofico occidentale, la vacuità, concetto centrale del buddhismo.
Se la sostanza è per cosí dire piena, ricolma di sé, Sunyata (vacuità) indica invece un movimento di es-propriazione, ovvero svuota l’ente che si ostina in sé stesso, che si irrigidisce in sé stesso o in sé stesso si chiude. Lo immerge in un’apertura, in un’aperta
vastità. Nel campo della vacuità nulla si condensa in una massiccia presenza. Nulla si basa esclusivamente su sé stesso. Il suo movimento sconfinante ed espropriante raccoglie il monadico per-sé in un rapporto di reciprocità. La vacuità non rappresenta
però un principio genetico, una causa prima da cui sorgerebbe ogni ente, ogni forma. Non le è insita alcuna potenza sostanziale da cui scaturirebbe un effetto e nessuna frattura ontologica la solleva in un ordine superiore dell’essere. Non delinea alcuna trascendenza
precedente l’apparizione delle forme. Forma e vuoto stanno sullo stesso piano dell’essere. Nessun dislivello dell’essere separa la vacuità dall’immanenza fenomenica.
Il vuoto o il nulla del buddhismo non è dunque una semplice negazione dei fenomeni, o una forma di nichilismo o di scetticismo. Rappresenta piuttosto un’estrema affermazione dell’essere. Soltanto la delimitazione propria della sostanza, che crea tensioni oppositive, è negata. L’apertura, la gentilezza del vuoto significa anche che l’ente di volta in volta presente non solo è nel mondo, ma che nel suo fondo è il mondo, che nel suo strato profondo respira le altre cose o procura loro lo spazio di soggiorno. Cosí in una cosa abita
il mondo intero.
In questo racconto fotografico si cerca di contrapporre i due pensieri filosofici, prima quello occidentale, gli scatti degli spazi di aggregazione, delle piazze, i mercati, i bar, la litoranea, durante il covid sono stati depauperati del loro significato e sono divenuti spazi
liminali, consegnandoci un senso di vuoto interiore, uno smarrimento che ha lasciato cicatrici in tutti noi; nella seconda parte le enormi distese del Ladakh che, nel loro essere disabitate, tutto suggeriscono fuorché uno svuotamento del loro significato e con il loro
vuoto trasmettono al contrario pienezza.
Parafrasando Borges:
‘Il vuoto è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre’. dell’Io, all’interno di quella trama sottile che collega tutte le cose.

 

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