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SEGNI DI MEMORIA: TEMPO, TRACCIA E IDENTITA’ Federica Ferzoco, Federica Tavian Ferrighi, Marta Vezzoli

SEGNI DI MEMORIA: TRACCIA, TEMPO E IDENTITA'
FEDERICA FERZOCO, FEDERICA TAVIAN FERRIGHI E MARTA VEZZOLI

Dal 2 dicembre 2024 al 2 febbraio 2025

Una mostra a cura di Alice Vangelisti

con il Patrocinio di Comune di Iseo

In collaborazione con Associazione falìa* 

Con il supporto di Poliedro Studio, Le Giraffe Noleggi e Liceo Artistico A. Frattini – Varese 

La nostra esistenza è inevitabilmente segnata da una serie di tracce, in costante bilico tra una  fuggevole presenza e un’assordante assenza. Emblema di questo dualismo è un corpo, che nel  tempo lascia un segnale del suo passaggio, restando così sospeso tra le fragili pieghe della  memoria. Ma come catturare questi attimi effimeri? Come cristallizzarli per non perderli del  tutto? Oppure, ancora, è forse il nostro compito quello di lasciarli fatalmente andare? 

In questo delicato equilibrio, tra il passato che insiste e il presente che fugge, le voci di Federica  Ferzoco, Federica Tavian Ferrighi e Marta Vezzoli ci narrano spazi di riflessione profonda sul  rapporto tra il tempo, la memoria e l’identità. Attraverso i materiali fragili e delicati, tipici  della ricerca di ciascuna, tessono così un racconto che interroga la nostra condizione di esseri  temporali e finiti, sospesi tra il desiderio di lasciare una traccia e l’inevitabile consapevolezza  della nostra caducità. Le loro opere – per certi versi così distanti nella tecnica, ma così vicine  nell’essenza – ci invitano così a riflettere su come questi segni non solo documentino la nostra  esistenza, ma partecipino a tutti gli effetti alla costruzione della nostra identità e memoria  collettiva. La traccia è infatti un concetto che attraversa la storia dell’umanità come un filo sottile,  tanto effimero quanto essenziale. È una memoria impressa nel mondo, è un tentativo di  dialogare con ciò che non c’è più e di fermare il tempo – o quantomeno di farlo rallentare.  Le tre artiste costruiscono in questo modo i loro lavori come se fossero delle epifanie della loro  personale – e in senso lato anche universale – conversazione con il tempo, in cui la materia  stessa si fa testimone e strumento per imprimere tracce che sfuggono, si dissolvono, ma non per  questo perdono significato. Ogni segno ci ricorda infatti che esistiamo solo in relazione a ciò che  lasciamo dietro di noi. L’arte, in questo senso, diventa un rito, un modo per celebrare ciò che non  c’è più, ma che continua a vivere nei segni che ha lasciato. E in queste manifestazioni, forse,  possiamo trovare una risposta alla domanda più antica e più umana di tutte: chi siamo noi, nel  tempo che scorre? Ogni traccia che lasciano è infatti una forma di resistenza contro l’oblio,  eppure è anche una celebrazione dell’impossibilità di fermare il fluire del tempo, come se la vera  bellezza stesse proprio nell’impossibilità di arrestare il passaggio degli istanti. Ed è proprio in  questa tensione tra la volontà di trattenere il passato e l’accettazione della sua inevitabile  dissoluzione che si inscrive il lavoro delle tre artiste, creando così un dialogo intimo tra la  presenza che si fa segno e l’assenza che persiste, come un eco che non smette mai di vibrare  nell’eterna evocazione di una danza tra tempo e memoria. Ma le loro opere non sono solo  riflessioni sul tempo e sulla traccia, bensì dei veri e propri atti di resistenza contro l’oblio. Ogni  segno che lasciano è un tentativo di trattenere qualcosa che sfugge, di dare forma a ciò che è  effimero. Eppure, al tempo stesso, queste opere ci ricordano che il nostro compito non è quello  di fermare il tempo, ma di accettare la sua inesorabile fluidità, di trovare bellezza proprio nella  fragilità delle tracce che lasciamo, perché, per quanto effimere, sono parte del flusso della vita.  Il lavoro di Federica Ferzoco si radica nel corpo – o meglio in involucri che si portano con sé i  tratti tipici dell’umano, seppur evanescenti e quasi spersonalizzati. Utilizzando le garze, l’artista  imprime, infatti, i segni di corpi che non vediamo, ma che in questo modo si fanno present nella  loro assenza. Le sue opere sono involucri che abitano il mondo parallelamente alla nostra vita  tangibile e ordinaria, tracce sottili di una presenza intima che ci sfugge, ma che a tutti gli effetti fa  parte di noi. È impossibile, però, non pensare, di fronte a queste opere, alle impronte lasciate  dalle vittime dell’eruzione del Vesuvio, corpi congelati in un istante di eterno addio, le cui  sagome sono state impresse nella cenere come testimonianza di un’altra vita, parallela a quella  reale che ora è solo memoria silente. Le garze di Ferzoco allo stesso modo tessono un  linguaggio silenzioso che rivela la bellezza e il significato dell’assenza, conservando una traccia  intima e potente dell’umano e offrendoci una riflessione silenziosa sulla dualità intrinseca  dell’individuo, intrappolato inesorabilmente tra essere e non essere. In questo senso, il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, nel saggio La scomparsa dei rit, riflette su come la modernità, nella  sua corsa verso il futuro, abbia smarrito la capacità di celebrare l’assenza attraverso il rito. Per  Han, i riti non sono altro che forme attraverso cui si rende visibile ciò che non c’è, si celebra  l’invisibile e si rende omaggio all’assenza. Le opere di Ferzoco incarnano questa stessa tensione:  sono riti silenziosi di ricordo, tentativi di fissare un’assenza concreta – ma non per questo non  presente nella nostra interiorità – e trasformarla in un segno tangibile. In ogni garza c’è infatti il  tentativo di plasmare un corpo intimo oltre il reale, di imprimerne nel mondo una memoria  attraverso tracce vuote ma pur sempre cariche di identità. 

Il lavoro di Federica Tavian Ferrighi sembra invece emergere dalla terra stessa, chiamata  dall’artista a dipingere direttamente le proprie tracce con le sue abili – e spesso imprevedibili – mani. In questo modo, l’artista cerca di catturarne l’essenza, permettendo che sia la natura stessa  a narrare le sue storie. I tessuti diventano così come delle pelli organiche, superfici vive che  assorbono i segreti dei suoi elementi essenziali, mentre i calchi, con i loro rilievi e avvallamenti,  sono come orme lasciate che parlano del suo continuo divenire. In questo modo, ogni elemento  che si imprime attraverso questi materiali porta con sé una memoria che si radica nel tempo e  nello spazio, in composizioni che si fanno a tutti gli effetti testimoni silenziosi della natura che  come una madre generosa, ci dona i suoi segni per ricordarci la sua ciclicità ed eternità. L’artista  non fa altro che ascoltare questo mormorio silenzioso, lo accoglie con la sua pratica e così  facendo ci restituisce le tracce di una memoria collettiva che va oltre il tempo finito dell’umano,  fondendosi invece con l’eterno fluire della natura. Ogni segno impresso è così un dialogo intenso  con la terra, un tentativo di afferrarne la sua capacità di lasciare segni e al contempo cancellarli,  in un ciclo infinito di creazione e distruzione. In questa conversazione visiva con la natura, si può  richiamare anche la riflessione di Maurice Merleau-Ponty, secondo la quale la materia è la traccia  viva del nostro rapporto con il mondo. Non esiste infatti una separazione tra corpo e mondo: il  corpo altro non è che una estensione della natura stessa e attraverso di esso noi percepiamo,  comprendiamo e lasciamo segni nel mondo. Così, i lavori di Tavian Ferrighi non sono solo  superfici, ma estensioni della terra, della pelle del mondo, e ogni traccia impressa diventa un  segno di questo dialogo eterno tra umano e naturale, effimero ed eterno.  

Il lavoro di Marta Vezzoli si muove infine tra luce e ombra, tra presenza e assenza, trovando nella  fragilità del filo di ferro e dei ricami su garza una metafora del tempo stesso. Le sue opere, come  leggere architetture temporali, sono fatte per essere osservate nell’interazione con la luce, che  trasforma le linee sottili in ombre fugaci, creando una coreografia visiva che muta con il passare  delle ore. In queste installazioni, il tempo non è più un’entità astratta, ma diventa visibile,  tangibile, quasi afferrabile. Queste composizioni, così, pur nella loro solidità materiale, diventano  fragili come il tempo che scorre, come un ricordo che sfugge tra le dita. Ogni creazione di  Vezzoli è in questo senso un delicato arazzo intessuto nella trama invisibile del tempo in grado di  riflettere la transitorietà del momento e la sua perpetua metamorfosi. È però un tempo da  intendere come nel pensiero di Martin Heidegger, il quale lo identifica non come una successione di momenti, ma piuttosto come un’esperienza vissuta che si intreccia con il  nostro essere nel mondo. Heidegger parla infatti di un tempo autentico, un tempo che non si  misura in minuti e secondi, ma nel fluire dell’esperienza, nel modo in cui l’essere si dispiega nel  mondo. Le opere di Vezzoli, con i loro sottili giochi di luce e ombra, evocano in qualche modo  questo tempo autentico: un tempo che non si può fermare, ma che si può percepire attraverso i  segni che lascia. In questo senso, le sue installazioni diventano metafore della vita stessa,  anch’esse sospese tra presenza e assenza, tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, in una danza  unica e irripetibile al ritmo del tempo.

Federica Ferzoco

Federica Ferzoco, vive e lavora a Milano dove ha conseguito il Diploma di Maturità Artistica al Liceo  Astistico Statale I°, il Diploma Accademico in Scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, il Diploma di 2°  Livello a indirizzo Didattico all’Accademia di Belle Arti di Brera e il Master in Counseling Costruzionista  presso il Centro Formazione-Studio, Dott. Masoni. E’ docente di Discipline Plastiche, Scultoree e  Scenoplastiche al Liceo Artistico di Brera, Milano. 

Opere in esposizione permanente/acquisizioni sono presenti presso: Biblioteca Cantonale, Lugano, Fondo  Carminati; Villa Greppi, Monticello Brianza; Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Biblioteca  Braidense, Milano; Parco San Giovanni – Parco delle Idee – Ex Ospedale Psichiatrico, Trieste; Oasi  naturalistica del torrente Farfa, Montopoli in Sabina (RI); MAPP Museo d’Arte Paolo Pini, Milano; TARGETTI  ART LIGHT, Firenze. 

Ha esposto in mostre personali e collettive in gallerie e musei, a residenze artistiche in Italia e all’estero. Ha vinto il premio fotografico CORPO MATERIA, sezione ACQUA. Metabolé, Venezia; il premio per  l’intervento d’arte per il Complesso San Giovanni – Parco dell’Arte, indetto dalla provincia di Trieste; il  premio “Targetti Art Light”. 

Ha partecipato alla Masterclass di arte pubblica “Dell’acqua e della luce” con Grazia Varisco e Ylbert  Durishti. Isola Borromeo di Cassano d’Adda; alla conferenza “L’altra metà della Scultura” a cura di Maria  Fratelli, Studio Museo Francesco Messina, Milano. 

Bio completa al sito: www.federicaferzoco.it 

Instagram: federica ferzoco

Federica Tavian Ferrighi 

Nata nel 1976, a Lendinara, nella terra dei cavalli, tra i due fiumi della grande pianura italiana. 

FTF si laurea in Arti Visive allo IUAV ed in scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dopo aver  conseguito l’abilitazione all’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Brera ed un master in storia  dell’arte contemporanea alla Facoltà Complutense di Belle Arti di Madrid, continua le sue ricerche in  Svezia, Spagna, Messico e Brasile. Queste esperienze l’hanno portata ad esporre e condurre workshops  educativo-artistici presso la Universidad Autónoma del Estado de México y del Estado de Morelos in  México, oltre a partecipare a seminari come La acción, la representa-acción y la vida-ordinaria en el  Laboratorio de Arte y Acción, MECAD (Media Centro de Arte y Diseño de la escuela superior de Diseño  ESDI) en Barcelona o fare ricerca al Royal Institute of Art di Stoccolma, Svezia. In Italia e all’estero FTF ha  esposto e preso parte a residenze artistiche, l’ultima delle quali presso il centro TerraUna in Minas Gerais  (Brasile), dove ha potuto sperimentare l’essenza della foresta. 

Dal 2006 è docente di progettazione in arti figurative al Liceo Artistico di Padova ed il suo lavoro artistico si  fonde con il lavoro didattico/educativo. Artista dedicata ai temi di genere, sociali ed ecologici lavora sui  binomi pubblico/privato, luce/ombra, trasparenze/strutture, parola/azione. Federica ricerca e  sperimenta, spesso l’incipit è la narrazione mitica portata al contemporaneo, analizza l’aspetto sociale e  culturale di un luogo e di un territorio, iniziando dalla mappa e dalle convivenze in essa contenute. La casa,  la piazza, la via, il territorio, divengono trama e tela contemporanea. Le sue video-interviste, i dibattiti  organizzati con persone che lavorano sul territorio in modo poliedrico, sono al cuore di ciò che intende  evidenziare e presentare con le sue installazioni e forme. Il suo lavoro è un viaggio attraverso il mondo, le  culture e il territorio, tanto urbano quanto naturale, una geografia che denuncia, propone e ricama  intimamente.  

Ha realizzato installazioni dedicate a mappe, tele e alchimie con tinture naturali, disegni, ricami,  performances, sculture e workshops dedicati alla Geografia Madre e all’educazione. con i progetti  presentati alle ultime esposizioni: 

  • – Festival Life Love Landscape con le opere Prima del Bronzo, MUSME Museo della Medicina di  Padova 2023 
  • KORE, workshop in due incontri e performance d’arte pubblica, Prato della Valle Padova 2023 – Festival Life Love Landscape con le opere Due metri quadri di geografia e Abitiamo, Museo di Geografia di Padova 2022 
  • – Geonight performance Abitiamo, Giardini Dell’Arena Padova 2022 
  • KORE, performance e call per l’arte pubblica, Prato della Valle Padova 2022 
  • – Altopiano-CommunityHub con Creative Living Lab, Lavarone (TN) 2022 
  • Xforma La città che verrà con l’opera L’incedere del Giardino progetto di Arte Pubblica, Padova Capitale Europea del Volontariato 2020 /2021 
  • Sono io e Circle, Casa Cava – Matera Capitale della Cultura Europea 2019 
  • Korè e as cores , 2018, residenza ed esposizione artistica presso TerraUna, Minas Gerais, Brasile – Shaped in Mexico con Monumento Geopoetico , 2015, il book di disegni botanici Il giardino Proibito, mappe sonore e geografias de metal alla OxoTower Bargehouse Gallery di Londra. 
  • Raptus Proserpinae , 2012, progetto all’Orto Botanico di Padova, Patrimonio UNESCO 
  • Paesaggio, 2013, un progetto realizzato al Teatro Marinoni al Lido di Venezia in collaborazione  con 

l’associazione OAM e con Adaptica, start-up innovativa nelle tecnologie ottiche. 

  • Proserpina, 2013 un progetto sviluppato a Pergusa, Enna, ed esposto al Piccolo Hansaldo,  Officine 

Creative a Milano. 

  • Vedi il resto delle expo sul sito 

www.federicatavianferrighi.com

Marta Vezzoli 

Brescia (IT) ’76. Diplomata all’accademia di Brera in scultura, esordisce nel ’98 con la collettiva Tras los  pasos de Llorca. Casa de Garcìa Lorca en Valderrubio – Granada, cui seguiranno tante altre tra cui La via  italiana all’informale – Venezia, Ut poesi pictura – Ferrara, Saatchi screen at Saatchi Gallery – Londra, Art de  Mai – Manosque (FR). 

Tra le personali più significative: Tele Trame Tessuti, fabbricapoggi Pavia (2024), Urgenti Attese,  E3artecontemporanea, Brescia (2017), Kostant schwebend, Bipolar Galerie – Leipzig (2015), Confini  d’Identità, Massenzio Arte – Roma (2014), Tempo sospeso – OCA Officine Creative Ansaldo – Milano (2013),  Legami in-dissolti – Galleria de l’Europe in Rue de Seine – Parigi (2011). 

Vincitrice dei premi Massenzio Arte International Prize e Symposium of Land Art. Le sue scenografie sono  state allestite presso lo Chateau Greoux Le Bain e il teatro Jean Le Bleu a Manosque (FR). 

Partecipa alle fiere internazionali di Torino, Verona, Monaco, Barcellona, Stoccolma, Nizza, Gand e  Strasburgo. Tra le pubblicazioni più rilevanti “La via italiana all’informale: da Afro, Vedova, Burri alle ultime  tendenze“. Giorgio Mondadori Editore, 2013. 

Marta Vezzoli traccia segni nell’ambiente, solcando le pareti o attraversando la sottile superficie della  garza. Sono lavori che rivelano un approccio lento e meditato, meticoloso nel gesto come un bel ricamo,  ma incisivo e nervoso come un graffio. La garza ricamata e il tondino di ferro, materiali a lei cari,  rispecchiano a pieno i temi della sua ricerca – il limite, il tempo, l’identità -, rendendoli visibili e tangibili. Il  lento cucire, rigorosamente a mano, è una sorta di scrittura emotiva che emerge dalla trama dei tessuti. Un  ruolo fondamentale nelle opere della Vezzoli è ricoperto anche dal gioco di luci e ombre prodotto dai  sottili disegni di metallo o dalla semitrasparenza della stoffa velata che crea continui chiaroscuri.

La mostra è visitabile giovedì e venerdì dalle 15:00 alle 18:00, sabato e domenica dalle 10:30  alle 12:30 e dalle 15:00 alle 18:00. 

Chiusi il giorno di Natale e il 1 gennaio 2025. 

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Patrizia Benedetta Fratus. INNO A VENERE

Patrizia Benedetta Fratus
INNO A VENERE

Dal 3 al 25 novembre 2024

Una mostra a cura di Barbara Pavan

in collaborazione con La rete di Daphne

con il Patrocinio di Comune di Iseo

Inno a Venere, proemio, la parte introduttiva di un orazione, l’inizio di una storia, da Lucrezio a Botticelli sempre Venere, neoplatonica rappresentazione di bellezza, colta nel nascere a nuova vita. Bellezza, nascita, altra storia, quella di Komal, e del tragico episodio che l’ha sfigurata parzialmente in volto e su buona parte del corpo, ma non è di questo che vogliamo parlare. Lei è giovanissima e ha deciso che non passerà la sua vita da vittima. Mi ha chiesto di raccontare la sua bellezza, di rendere le cicatrici della sua pelle una mappa, un altro modo di percorrere, farne proemio d’altra narrazione 

Grazie a Rete di Daphne è avvenuto il nostro incontro e sempre grazie a Rete di Daphne continua questo nostro percorso a sostegno di Komal. 

Patrizia Benedetta Fratus 

PATRIZIA BENEDETTA FRATUS ha dedicato anni a pratiche artistiche partecipate e relazionali, con particolare attenzione alle declinazioni della prevaricazione, in primis nei confronti del genere femminile. In questo terreno è germogliata la sua ricerca delle ragioni e delle dinamiche che sono alla radice della violenza – non solo verso il singolo individuo o gruppo etnico o comunità, ma anche nei confronti della natura – e che derivano da un costante processo di svilimento e desacralizzazione, di trasformazione del soggetto in oggetto; meccanismi generati, verosimilmente, da una successione di cesure e dualismi contrapposti – tra l’uomo e l’ambiente, tra natura e cultura, tra spirito e materia. Tutta la storia del pensiero occidentale – che caratterizza ormai in gran parte la cifra del mondo globalizzato – è, in effetti, una storia di prevaricazioni. La pratica artistica è per Fratus un atto della possibilità: se l’Arte non è parte integrante della vita e dunque in grado di agire e interagire per influire su di essa, per trasformarla, quale senso essa può ancora avere nell’era della comunicazione, dell’AI, della virtualizzazione del mondo? 

Per poterla cambiare, è necessario osservare la realtà da punti di vista differenti e divergenti e in questa visione dell’arte rientra INNO A VENERE, un percorso che si snoda tra opere che hanno nella possibilità e nella trasformazione il loro focus. 

Un racconto che si sviluppa intorno all’opera omonima, culminando in una riflessione sulla potenza del cambiamento, dell’evoluzione del pensiero e della visione – esistenziale, culturale, sociale, individuale e collettiva. Patrizia Fratus, attraverso questo corpus di opere, sovverte e ricompone il significato di bellezza e di sacro, dialogando con tutte le voci – anche quelle silenti – del passato e del presente, ridisegnando le coordinate future di una narrazione che non appartiene – se non in parte – ad alcuna delle storie già scritte, ma che si apre sempre e comunque a nuove possibilità, inaspettate ed inesplorate. 

Partendo da NAOS, una serie di vasi-scultura ibridi, dove nella commistione tra fili e terra, nelle forme femminili tonde e cave, emerge un’allusione all’archetipo della Grande Madre e un’eco di divinità arcaiche; opere in cui materia e spirito si riconciliano, che sembrano in ascolto della polifonia dell’Universo ma prendono corpo dalla creazione del gesto artistico che è profondamente umano. Il sacro abitava i templi antichi quanto il corpo femminile, attraversato dal trascendente nella sua possibilità di dare forma alla vita. La sacralità, scriveva Cristina Campo, risiede in quel vuoto estatico in cui si compie il destino, e Fratus, nel modellare i suoi vasi, rende palpabile questo senso di sacralità che appartiene a ogni vita. 

Il percorso continua con LEI ERA, un’installazione immersiva di centinaia di figure femminili in vetro soffiato, sospese a formare un soffitto di cristallo, termine con cui si indica convenzionalmente quella barriera invisibile che impedisce la piena emancipazione delle donne in particolare in percorsi di carriera e verso posizioni di potere. Fratus ci invita a sovvertire la nostra percezione della storia: cosa accade se quel soffitto si rivela in realtà fatto di una moltitudine di donne di cristallo? Il soffitto di cristallo non è qualcosa da rompere, ma una realtà da riscoprire e comprendere. La luce, che si riflette su queste figure in vetro, moltiplica le loro ombre, creando una narrazione collettiva che invita a superare i dualismi e le gerarchie imposte. La Storia, frammentata e mutilata di tante voci, si arricchisce qui di nuove prospettive, rivelando che non raramente siamo noi stesse il limite del nostro potenziale. 

Con INNO A VENERE, l’opera che dà il titolo alla mostra, l’artista ne reinventa il mito classico. Riprende qui la posa e gli attributi della famosa Nascita di Venere di Botticelli, ma ne sovverte il significato: la bellezza di questa Venere contemporanea non è più idealizzata e perfetta, ma reale, segnata da cicatrici che testimoniano le prove attraversate. I segni della vita diventano mappa e valore, mentre l’oro della bellezza mitologica lascia spazio a una patina che esalta l’autenticità del corpo femminile. La Venere di Fratus non è più un mito irraggiungibile, ma un paradigma di una bellezza diversa, radicata nell’esperienza umana e capace di riscrivere (o liberare dai) i canoni – anche estetici – del passato. 

Il processo di muta ovvero di trasformazione, essenziale in questa riflessione, emerge anche in PAROLE IN CORPO, due grandi sculture di carta filata, dove le parole stampate vengono destrutturate e rielaborate. La figura, in perenne divenire, è ibrida – donna, serpente, albero – in una metamorfosi che suggerisce una continua rinascita. La muta del serpente diventa simbolo di immortalità e di potenza femminile, richiamando antichi simboli sacri, dal bastone di Asclepio alla filosofia tantrica. 

Allude ad un’iconografia mutuata dalla mitologia classica – integralmente reinterpretata con nuovi significati – FACCIA A FACCIA, un’opera tessuta a uncino, che rappresenta una testa di Medusa senza volto, e che restituisce all’osservatore il riflesso di sé stesso. Guardandoci dentro, infatti, scopriamo la pluralità della nostra esistenza: siamo intrecci di elementi in continua trasformazione, simili a radici che si sviluppano in tutte le direzioni. La metamorfosi è in effetti questo, la coesistenza di possibilità diverse in una stessa vita, un processo dinamico che ci porta verso il cambiamento e la rinascita. 

Un tema che ritroviamo in POTREMMO, una scultura morbida che appare ripiegata su se stessa, evocativa della nostra incapacità di sostenerci e riconoscerci. È un invito alla consapevolezza, a liberarci dalle catene invisibili che ci limitano. 

La forza del cambiamento che è ampiamente raffigurata in DRAGA BIANCA, un grande arazzo che restituisce una narrazione femminile in risposta alla tradizionale lettura del drago nella leggendaria storia di San Giorgio; invertendo il paradigma di prevaricazione e annientamento della diversità, la Draga diventa qui simbolo di una nuova cosmogonia, una speranza di riconciliazione e di una una narrazione altra

Patrizia Benedetta Fratus

Artivista attiva da anni sulla scena nazionale ed internazionale, considera l’arte come strumento di cambiamento ed evoluzione individuali e collettivi, sociali e politici. Artista multimaterica, usa medium di scarto per avviare opere partecipate e relazionali coinvolgendo per la loro realizzazione, coloro che facendole ne diventano parte viva. Cerca nelle mappe dei linguaggi le radici dell’immaginario possibile oltre gli stereotipi. Nelle parole sta il potere di generare mondi, infiniti mondi. Intende la pratica artistica come strumento di sperimentazione intellettuale ed empirica di consapevolezza, autosufficienza e autodeterminazione, elementi necessari per l’emancipazione umana. Nata a Palosco nel 1960 si è formata all’Istituto Marangoni di Milano, lavorando poi nella sartoria del Teatro alla Scala. Nel 2004 debutta come artista a Parigi nella Galleria Edgar le Machand d’Art. Dal 2005 espone in gallerie in Italia e all’estero da Bergamo, a Brescia, a Milano, Londra e Parigi. Vince il Premio Nocivelli ed è finalista al Premio Cairo nel 2009. Realizza la prima “Cometumivuoi”, una bambola nata dalle continue sollecitazioni della cronaca di femminicidio. Dal 2012 lavora a progetti di arte relazionale e ambientale collaborando anche con case di accoglienza e scuole. Nel 2015 realizza l’opera monumentale d’arte relazionale “VivaVittoria” a Brescia. Ha esposto in Italia, Europa, Stati Uniti. 

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SEQUEL. MIRKO BEDUSSI, ALBERTO GOGLIO, NICOLA PEDRALI E GIUSEPPE RUMI

SEQUEL
MIRKO BEDUSSI, ALBERTO GOGLIO, NICOLA PEDRALI E GIUSEPPE RUMI

Dal 4 maggio al 9 giugno 2024

Una mostra a cura di Laura Dossi e Massimo Rossi (LovOglio APS)

con il Patrocinio di Comune di Iseo

Da sabato 4 maggio a domenica 9 giugno 2024

Sabato 4 maggio alle ore 16 presso l’Arsenale di Iseo si terrà il vernissage della mostra “SEQUEL”, una collettiva dei Maestri Mirko Bedussi (scultore), Alberto Goglio (pittore), Nicola Pedrali (scultore) e Giuseppe Rumi (pittore).

All’interno sono disponibili le card dei singoli artisti.

SEQUEL è il naturale proseguo di una prima collettiva dei 4 artisti bresciani già impegnati in una riflessione sul tempo. Nella sostanziale differenza formale e materiale proposta da questi maestri, vi è la comune ricerca del senso della temporalità (esperienza dell’anima e pretestuosa strategia convenzionale per il quotidiano) fino alla conclusione negativa di un non-tempo, inteso, quindi,
come eternità. La dimensione ciclica e incessante dell’essere informa tutte le cose, uomini compresi, e rende tutto sempre immutabile e immutato. La fine non è la fine e l’inizio non è mai davvero tale. Tutto sta in tutto e in ciascuno di noi vi è una contaminazione universale che ci allinea in una perfetta comunione materiale e spirituale. La tentazione della perdita dell’io è forte; la fascinazione induista e buddista è dietro l’angolo. Di certo, come diceva Pasolini all’interno di una sua celebre pellicola, “la verità non sta in un solo sogno: la verità sta in molti sogni”.
Mirko Bedussi, Alberto Goglio, Nicola Pedrali e Giuseppe Rumi sono docenti e colleghi presso il Liceo Artistico “Leonardo” di Brescia.

Massimo Rossi

GLI ARTISTI
MIRKO BEDUSSI

Mirko Bedussi nasce a Brescia nel 1966. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico, nel 1988 si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. È docente di Discipline Pittoriche presso il Liceo Statale Leonardo di Brescia. Dal 1992 al 2018 ha esposto in numerose mostre personali e collettive, annoverando diversi riconoscimenti:
• Premio San Carlo Borromeo, Palazzo della Permanente, Milano, 1993
• Vincitore del Concorso per la realizzazione del monumento alla Capitaneria di porto, Catania,
1995
• Selezionato al Premio Colomba, Venezia, 2006
Le superfici delle sue opere, graffiate e lavorate a cera, sono definite con cura pittorica, fino ad apparire quasi levigate dal tempo più che dalla mano dell’artista. Il carattere, talvolta appena accennato, e la profondità dello sguardo dei suoi volti trasfigurano la materia in effigi mitologiche antropomorfiche: quasi reperti archeologici di un futuro potentemente trasfigurato.
mirkobedussi.tumblr.com

ALBERTO GOGLIO
Alberto Goglio nasce a Brescia nel 1967. Frequenta il Liceo Artistico e nel 1990 si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. È docente di Discipline Pittoriche presso il Liceo Statale Leonardo di Brescia. Dal 2003 al 2017 è titolare della Cattedra di Decorazione e della Cattedra di Storia della Decorazione moderna e contemporanea presso la LABA, Accademia di
Belle Arti di Brescia.
Dal 2017 al 2020 è Docente di Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Verona.
Goglio unisce alla riflessione teorica sulla decorazione la progettazione di interventi artistici in spazi pubblici.
L’attività pittorica è testimoniata dalle numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero dove colleziona diversi riconoscimenti:
• Invito alla XXVII Biennale del muro dipinto di Dozza (BO), 2019
• Invito al Premio Bozzolo, 2015
• Ammissione al 32° premio Suzzara, 1989
La sua opera predilige la figura umana, sintetizzata attraverso un gesto pittorico che è testimonianza di un corrispondente movimento corporeo o di un moto interiore – un espressionismo introspettivo che diviene efficace mezzo di conoscenza di se stessi e del mondo.
www.albertogoglio.com | www.faredecorazione.it

NICOLA PEDRALI
Nicola Pedrali nasce a Palazzolo sull’Oglio, nel 1972. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico Statale di Bergamo, nel 1996 si diploma con lode in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera coi docenti Lydia Silvestri e Giancarlo Marchese.
Dal 2000 è Docente di Discipline Plastiche nei Licei Artistici di Brescia e dal 2006 è titolare di cattedra presso il Liceo Leonardo di Brescia. Vive a Sale Marasino, sulle sponde del Lago Sebino, dove continua a coltivare la sua passione per la scultura. Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali, ottenendo diversi riconoscimenti:
• 1° Premio Moretto, sez. scultura, Brescia, 1997 / 1996 / 1994
• 1° premio scultura, concorso San Bartolomeo, Brescia, 1996
• Premio Salon 1 ’95, sezione scultura, dell’Accademia di Brera e Fondazione Pini, 1995
• Concorso “L’uomo e il gatto “, opera presente al congresso mondiale c/o Fondazione Cini a
Venezia, 1994
Pedrali è un artista antico, di ferro e fuoco, un concettuale alchimista che plasma la materia nella sua durezza e complessità verso forme di progressiva e chiara definizione del suo intento artistico. Nei suoi pezzi di ferro, magma, cemento, resina o legno d’ulivo, ossidi e pigmento d’oro, si coglie, nitida, quella naturale tendenza della natura imperfetta a raggiungere uno stato di perfettibilità.

www.pedraliscultore.it

GIUSEPPE RUMI
Giuseppe Rumi nasce a Palazzolo sull’Oglio nel 1962. Si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano) nel 1988. L’anno successivo si specializza come “Coordinatore d’immagine per la distribuzione commerciale”.
Attualmente insegna discipline grafiche e pittoriche al Liceo Leonardo di Brescia. Dal 1988 ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia e all’estero.
Tra i principali riconoscimenti conseguiti, ricordiamo:
• IX Premio Brera (Milano 1986)
• Premio di grafica Swylon (Milano1988)
• Premio “Grand Prix” Kobayashi Kose (Tokyo 1989/90)
È stato inoltre selezionato a:
• Premio San Carlo Borromeo, Museo della Permanente (Milano 1996)
• Premio Internazionale Lìmen Arte 2010 a Vibo Valentia
L’opera di Rumi è una sindone stratigrafica, dove il tempo è perenne flusso energetico che fluttua dalle sorgenti e scorre fino a stemperarsi in quieti fondali dorati o a inabissarsi in gore fangose.
Dal grande grembo, che tutto genera e a cui tutto ritorna, emergono ricordi e lontane consonanze: sono fossili, istantanee radiografiche o preziosi frammenti aurei di esistenze universali.

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GAME <> CARE

GAME <> CARE
STEFANO BOMBARDIERI

Dal 15 giugno al 29 settembre 2024

Una mostra a cura di Anna Lisa Ghirardi

con il Patrocinio di Comune di Iseo e il supporto di Poliedro Studio, Le Giraffe Noleggi e GARE82

Il passaggio da immagini leggere, giocose a tematiche più profonde e meditative è continuo nella opera di Stefano Bombardieri. Ci si può fermare a leggere le grandi bestie come monumentali figure da parco giochi o appropriarsi di uno sguardo più introspettivo e
conoscitivo della sua poetica.
Non manca una vena dadaista, giocosa e nemmeno il sentimento del contrario.
In relazione alla sua opera si deve pensare alla parola illusione, in questa lettura etimologica: in-ludere (scherzare) -ludus (gioco), in un contrasto tra apparenza e realtà.
Entrare nel suo studio, un grande capannone pieno di sculture in fase di realizzazione, di costruzione, è un po’ come entrare in un gioco. E il gioco è metafora del mondo.
Molti filosofi si sono soffermati sul questo tema, da Platone a Nietzsche. Per Eugen Fink, che ne ha scritto in più occasioni, citando anche Eraclito, il gioco umano, in particolare fanciullesco, può essere assunto come simbolo di quello cosmico. Ǫuesta attività per il
bambino è “sano mezzo di esistenza” e attraverso essa realizza la sua “apertura al mondo”.
Secondo il filosofo tedesco è infatti importante cercare di conservare quanto più possibile la spontaneità, la fantasia, l’iniziativa di chi gioca. Il gioco appartiene pertanto alla costituzione ontologica dell’esistenza umana ed è simbolo del mondo, giacché attraverso esso si manifesta il modo dell’uomo di rapportarsi al mondo e all’altro, perché ogni gioco ha un orizzonte di apertura.

Come Bombardieri afferma: l’arte è la sua medicina. Il linguaggio ludico cela, nell’apparente leggerezza, persino l’amarezza di uno sciroppo curativo.

Stefano Bombardieri (Brescia, 1968).
Figlio di scultore, affianca gli studi artistici alla frequentazione, sin da giovane età, dello studio del padre, Remo Bombardieri, dove affina le sue conoscenze tecniche.
Accanto alla realizzazione di sculture figurative, in prevalenza di grandi dimensioni, crea opere legate all’arte povera, all’arte concettuale e alla video-installazione. La sua ricerca artistica si sviluppa sulla riflessione, non senza suggestioni filosofiche, di alcuni temi, quali il tempo e la sua percezione, l’esperienza del dolore nella cultura occidentale, l’uomo e il senso dell’esistenza. Il suo lavoro parte dalla realtà tangibile per giungere a mondi interiori, universi fantastici.
A partire dagli anni Novanta espone in spazi pubblici e gallerie, prediligendo il dialogo tra opera e ambiente urbano.
Tra le sue installazioni si ricordano quelle collocate a Ferrara, a Faenza, a Bologna, a Saint Tropez e a Potsdam. Nella suggestiva cornice di Pietrasanta presenta nel 2009 la sua personale The animals’ count down. Partecipa inoltre alla 52a e alla 54a Biennale di Venezia. Lavora tra Italia, Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra, Grecia, Libano, Stati Uniti ed Emirati Arabi.
Nell’anno accademico 2020-2021 è stato Docente di Scultura Pubblica Monumentale presso l’Accademia Santa Giulia di Brescia. 

 

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MARCO GRIMALDI. CODICE LUCE

Marco Grimaldi. CODICE LUCE

Dal 16 marzo al 21 aprile 2024

Una mostra a cura di Matteo Galbiati

In collaborazione con Giulia Andrea Gerosa
con il Patrocinio di Comune di Iseo

Da sabato 16 marzo a domenica 21 aprile 2024

Nell’ambito delle mostre che Fondazione l’Arsenale dedica agli artisti contemporanei, le sale dell’edificio storico si aprono a un nuovo allestimento che ospita le opere di Marco Grimaldi (1967), in occasione dell’esposizione personale curata da Matteo Galbiati.

 
Marco Grimaldi. Codice luce costituisce un cruciale momento di riflessione sulla ricerca dell’artista, poiché analizza — nei tre ambienti in cui si suddivide il percorso di visita — le differenti modalità della sua espressione artistica. Dal piccolo al grande formato, dalla tela singola al polittico, fil rouge della produzione di Grimaldi è l’attenzione posta al segno e alla luce. In alcune opere, quali i polittici di Chimica e luce, emerge una precisione gestuale matematica, tale da apparire artificiale: l’artista raffina il segno affinché diventi pura fonte luminosa. In altre invece, come l’inedito Ultimo sudario, prevale la necessità espressiva sulla razionalità, dando vita a opere in cui la luce diventa più liquida e spontanea, rimandando a immagini biomorfe.

Grimaldi trasforma la statica base tradizionale della pittura — la tela — in un campo agente, nucleo fuso e magmatico, dove il colore si pone in uno stato di continuo fermento. Questa interpretazione della pittura è valida per tutta la sua produzione, dai lavori della fine degli anni Novanta, particolarmente materici, sino a quelli odierni, più meditativi e leggeri; in tutti i cicli di opere di Grimaldi emerge sempre la cura peculiare rivolta al gesto. Il segno man mano si è evoluto, diventando più dolce, fino a quasi scomparire, lasciando spazio a pure linee di luce in cui le cremie sono attenuate.

A tal proposito annota Matteo Galbiati nel testo critico che accompagna la mostra: “La dialettica tra luce e ombra, costante significativa e significante della ricerca di Grimaldi, pare eludere un’endemica contrapposizione netta, agendo proprio in favore di un equilibrio pacificato tra le parti che si attua attraverso passaggi continui, dall’una all’altra, in cui i due opposti si legano in una continuità fluida, dinamica, consecutiva. Il fattore chiave, l’elemento che può in questa impresa che dilava forme e geometrie, è il colore interpretato nel tempo con la cura di una stesura mai immediata, mai casuale, mai istintiva. Le luminescenze e le ombrosità sono carattere di un pensiero su cui lungamente Grimaldi ha meditato e che considera allora la Pittura quale riflessione non solo incentrata sull’apparire e sul manifestarsi di qualcosa da scoprire, ma anche è votata al ricordo, a quelle esperienze individuali che, sensibili e sollecitate, se attivate si interrogano sulla memoria che torna e si ritrova in qualcosa di nuovo e diverso.”

Oggi, la superficie delle sue tele appare levigata, eppure non nasconde mai la gestualità che l’ha creata. Questa affiora silenziosamente dalle sfumature sapienti, dalle calcolate imprecisioni e dai contrasti coerenti.

Marco Grimaldi. Codice luce si presenta come una selezione attenta e calibrata di alcuni lavori particolarmente significativi dell’ultima produzione dell’artista, il quale desidera caricare la pittura astratta di vita, per poter esprimere e comunicare un’emozione concreta”.

 

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Marzia de Tavonatti. IL PESO DEL VUOTO

Marzia de Tavonatti. IL PESO DEL VUOTO

Dal 27 gennaio al 3 marzo 2024

Una mostra

Con il patrocinio del Comune d’Iseo

E il supporto di Poliedro Studio

 

Il peso del vuoto
Per spiegare la trasformazione della realtà e il mutamento dei corpi, Democrito nel 400 a.C. circa, sentì la necessità di ipotizzare l’esistenza del vuoto, di un ‘non qualcosa’, del nulla inteso come spazio. Pose gli atomi alla base della composizione della materia, il
sostrato indivisibile. Nel vuoto gli atomi si muovono, si incontrano e si scontrano.
Nel corso dei secoli, il vuoto rimane uno tra i concetti più enigmatici, pervasivi del pensare, sempre attuale pur nel mutare delle concezioni fisiche e filosofiche e si delinea sempre più come un altro nome dell’essere.
Il vuoto come concezione del movimento, del divenire, del tempo.
Nello scritto ‘Il vuoto: un’enigma tra fisica e metafisica’ si ipotizza che il nulla non sia di per sé ‘vuoto’ ma consista, usando il linguaggio della fisica contemporanea, in uno ‘stato di di minima energia’, uno stato fondamentale che riempie uniformemente lo spazio e con
il quale alla fine coincide.
L’Apeiron di Anassimandro, che consente l’esistenza e il dinamismo di tutti gli elementi nel tempo, la Chora platonica, un elemento primordiale oscuro ed indivisibile, il Sein di Heidegger come trasparenza che fa vedere, attrito che fa muovere, intero che rende
possibile la parte, l’etere della millenaria tradizione fisica e metafisica come sostanza che pervade tutto l’universo e dentro la quale si muovono i corpi, compresa la luce.
Ed infine, in contrapposizione al pensiero filosofico occidentale, la vacuità, concetto centrale del buddhismo.
Se la sostanza è per cosí dire piena, ricolma di sé, Sunyata (vacuità) indica invece un movimento di es-propriazione, ovvero svuota l’ente che si ostina in sé stesso, che si irrigidisce in sé stesso o in sé stesso si chiude. Lo immerge in un’apertura, in un’aperta
vastità. Nel campo della vacuità nulla si condensa in una massiccia presenza. Nulla si basa esclusivamente su sé stesso. Il suo movimento sconfinante ed espropriante raccoglie il monadico per-sé in un rapporto di reciprocità. La vacuità non rappresenta
però un principio genetico, una causa prima da cui sorgerebbe ogni ente, ogni forma. Non le è insita alcuna potenza sostanziale da cui scaturirebbe un effetto e nessuna frattura ontologica la solleva in un ordine superiore dell’essere. Non delinea alcuna trascendenza
precedente l’apparizione delle forme. Forma e vuoto stanno sullo stesso piano dell’essere. Nessun dislivello dell’essere separa la vacuità dall’immanenza fenomenica.
Il vuoto o il nulla del buddhismo non è dunque una semplice negazione dei fenomeni, o una forma di nichilismo o di scetticismo. Rappresenta piuttosto un’estrema affermazione dell’essere. Soltanto la delimitazione propria della sostanza, che crea tensioni oppositive, è negata. L’apertura, la gentilezza del vuoto significa anche che l’ente di volta in volta presente non solo è nel mondo, ma che nel suo fondo è il mondo, che nel suo strato profondo respira le altre cose o procura loro lo spazio di soggiorno. Cosí in una cosa abita
il mondo intero.
In questo racconto fotografico si cerca di contrapporre i due pensieri filosofici, prima quello occidentale, gli scatti degli spazi di aggregazione, delle piazze, i mercati, i bar, la litoranea, durante il covid sono stati depauperati del loro significato e sono divenuti spazi
liminali, consegnandoci un senso di vuoto interiore, uno smarrimento che ha lasciato cicatrici in tutti noi; nella seconda parte le enormi distese del Ladakh che, nel loro essere disabitate, tutto suggeriscono fuorché uno svuotamento del loro significato e con il loro
vuoto trasmettono al contrario pienezza.
Parafrasando Borges:
‘Il vuoto è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre’. dell’Io, all’interno di quella trama sottile che collega tutte le cose.

 

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ARTISTI CONTEMPORANEI: Tiziano Ronchi TRACCE. Mycosium

Tiziano Ronchi TRACCE. Mycosium

Dal 2 dicembre 2023 al 7 gennaio 2024

Una mostra a cura di Camilla Remondina

Con il patrocinio del Comune d’Iseo

In collaborazione con Poliedro Studio, Assisi Raffineria Metalli Spa, IT’S, Inoxdep Srl e Lomopress Srl


La ricerca di Tiziano Ronchi (Brescia, 1995) si concentra sul concetto di traccia – infatti questo termine riecheggia spesso nei titoli delle sue mostre, compresa questa – intesa come simbolo di rapporti ed emozioni, ma anche di ricerche e percorsi di conoscenza: è ciò che lasciamo alle nostre spalle, ciò che imprimiamo oggi sul nostro cammino per riscoprirlo un domani, ciò che è sempre stato dentro di noi.

La Natura è il segno intrinseco della nostra esistenza, la Madre da cui tutto ha avuto inizio e da cui continua ad avere origine la vita. Oltre ad essere le nostre radici, è anche la guida prediletta dall’artista per indagare i rapporti umani, non solo tra l’uomo ed essa, ma anche tra l’Io e l’Altro e tra l’individuo e la propria essenza.

La mostra, intitolata TRACCE. Mycosium, rappresenta il percorso intrapreso dall’essere umano sin dalla sua nascita. Si tratta di un viaggio nel mondo, segnato inevitabilmente da incontri e legami con l’Altro che permettono di mantenere il contatto con l’esterno, e al tempo stesso un viaggio interiore, di continua scoperta e riscoperta di sé stessi.

Per rappresentare gli elementi e le forme della Natura, quale fil rouge della vita, l’artista si avvale dell’utilizzo dei funghi, i quali infatti assumono analogamente il ruolo di accompagnatori durante la visita, emergendo opera dopo opera. Questi organismi vegetali si caratterizzano per il loro micelio da cui prende il titolo questa personale, vista la sua struttura metaforicamente puntuale rispetto alla ricerca dell’artista. Questa rete di sottili radici, estese ed articolate, prolifera nascosta nella profondità del terreno, continuando a generare nuova vita e creando un tessuto connettivo in grado di unire e trasmettere impulsi a tutta la vegetazione. Allo stesso modo i funghi presenti nelle opere, estendendosi per tutto il percorso e costituendo un substrato coerente, mandano messaggi e suggestioni che permettono di percepire maggiormente il legame tra l’Io, l’Altro e la Natura. Come dei mantra, queste opere si servono della ripetizione e della ridondanza per far concentrare l’attenzione e quindi scavare più in profondità all’interno dell’Io, all’interno di quella trama sottile che collega tutte le cose.

Nella prima sala dell’Arsenale, l’uomo si eleva dalla terra in cui viene generato: attraverso un processo di aggregazione, possibile grazie al micelio, in lui si fondono gli elementi della Natura per giungere alla formazione del corpo e quindi alla nascita.

Proseguendo nella seconda sala, le opere proposte rappresentano come i soprusi dell’essere umano nei confronti della Natura trovino sempre una ricongiunzione pacifica con essa. Le ferite, le tracce, vengono rigenerate diventando frammenti puri di materia che il micelio ricompone, come un puzzle, legando indissolubilmente il passato al presente.

Nell’ultima sala, Ronchi dimostra come la consapevolezza di Sé, la riconnessione con l’Io, sia difficile da raggiungere; è un sentiero in salita da affrontare passo dopo passo, sempre uguale e costante: l’esercizio, infatti, permette di innalzare la mente percorrendo una rilettura della componente più materiale dell’individuo.
Questa ricerca termina, o forse si fa ancora più complessa ma necessaria, quando si comprende il vero strumento di ricongiunzione tra l’Io, la Natura e l’Altro: l’ascolto.
Solo così è possibile intraprendere la strada per la conoscenza dello Spirito.

 

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ARTISTI CONTEMPORANEI: DUCCIO GUARNERI. Grey dust

DUCCIO GUARNERI. GREY DUST

Dal 14 ottobre al 19 novembre 2023

Una mostra a cura di Camilla Remondina

Con il patrocinio del Comune d’Iseo

In collaborazione con Poliedro Studio

 

Polvere grigia come quella utilizzata per realizzare il cemento, simbolo dell’uomo che sovrasta la natura, ma anche come quella che lasciamo dietro di noi, quando la natura si riappropria di ciò che le è stato sottratto. Siamo solo di passaggio su questo pianeta e tutto ciò che creiamo è destinato alla decadenza, alla fine: Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem (dal latino: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”).

Il grigio dei paesaggi antropizzati e gli elementi tipicamente edili, quali cemento, tubi e impalcature – usati come parte costitutiva, se non primaria, nelle opere oppure come supporti funzionali – segnano parte della ricerca di Duccio Guarneri (Cremona, 1994) che nella geometria e nell’ordine costruisce, quasi fosse un architetto, delle strutture utopiche in forte contrasto con la natura in cui sono inserite ad indicare le inquietudini dell’uomo, le sue ansie e le sue paure, le stesse che l’artista vive nella società odierna. Non è la natura ed esserci ostile, siamo noi ad esserlo nei suoi confronti.

Nella prima sala, luoghi utopici, abbandonati e disturbanti accolgono lo spettatore in una realtà al limite con la dimensione onirica, dove viene da chiedersi “C’è qualcuno qui?”. Qualcuno c’è, nell’angolo della stanza, in Cerchio, una figura resta in silenzio, sospesa nel tempo, mentre ripercorre su tutto ciò che ha imparato, tutto ciò che ha provato, per continuare a creare, immaginare: è la mente umana.
Con il ciclo P13 l’artista rappresenta scenari catastrofici, dove l’eccessiva contaminazione dell’uomo – evocata anche dalla fredda, pesante e opprimente cornice di cemento – ha guastato paesaggi perfetti, così da far riflettere sulle tematiche ambientali.

Proseguendo nella seconda sala volti semi-sciolti, scheggiati o, ancora, incrinati, teschi deformi e alberi secchi generano una sensazione di inquietudine che pervade lo spazio espositivo, un presagio che però è già scritto. È questo il destino dell’uomo, ma, come lo stesso artista dichiara: “Ogni condizione possiede un’antitesi, ma un’entità non può esistere senza l’altra, essendo la vita e la morte complementari. Una condizione è presente anche per impreziosire il suo opposto”.
Il teschio di capro (o becco), presente in mostra, ha dato origine al ciclo inedito Soon Will Be Cool Enough To Build Fires. Per l’artista questo oggetto bizzarro è stato il punto di partenza per una riflessione più ampia sull’errore, sull’anomalia che diventa particolarità, unicità, e racconta una storia speciale, generando curiosità e fascinazione.

Nell’ultima sala è presentata la componente più installativa del lavoro di Guarneri. M.A.D.E.R. è composta da matrici – il cui termine, non a caso, condivide la stessa radice del titolo, di madre – utilizzate per la lavorazione del ferro secondo la tradizione artigianale di Bienno, in Valcamonica, dove l’artista ha realizzato una residenza. Sono materiali di recupero segnati dal tempo, il cui scopo era plasmare e contenere i dischi di ferro durante la cottura per renderli altro.
Se Subsidence è metafora dell’essere trascinati in balia della corrente, del movimento imprevedibile, per via della struttura modulabile di cui è costituita che costantemente cambia e distorce i suoni riprodotti al suo interno, l’opera di fronte, Impasse (I will either find a way, or Im gonna make it myself), è il tentativo di contrastare questa impasse, appunto, che sembra non avere via di uscita, è l’invito dell’artista per sé stesso e per gli altri a “trovare un modo, o inventarne uno” (dalla frase latina attribuita al comandante cartaginese Annibale).

Duccio Guarneri

Duccio Guarneri, nato a Cremona nel 1994, ha conseguito il diploma triennale in Decorazione Artistica (2018) presso l’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia e quello biennale in Arti Visive Contemporanee (2021) nella medesima Accademia.

Nel 2023 vince il Premio speciale della giuria – sezione Pittura di Kahleidon Festival – Latina, nel 2022 il Primo premio – sezione Scultura del Premio d’Arte di Città di Sarezzo e nel 2021 il Primo premio «Eros e Thanatos» a cura dell’Associazione Filosofi Lungo l’Oglio – Ospitaletto (BS).
Tra le recenti mostre si segnalano: nel 2023 Nem-jelenlét / Non Presence, a cura di di Tünde Török, a MyMuseum Gallery – Budapest, 20+ a call for drawings, a cura di Camilla Remondina e la direzione artistica del PREMIO COMBAT, a Cremona Art Fair; nel 2022 Nodi, a cura di Anna Piergentili, a Villa Galnica – Puegnago del Garda, EXPLO3, a cura di Anne Michelle Vrillet e Barbara Crimella, a Casa Valiga – Bienno, Esposizione Premio d’Arte di Città di Sarezzo, a Palazzo Avogadro, Et Lege. La sapienza conviene, a cura di Francesco Visentini e dell’Unione Cattolica Artisti italiani, alla Chiesa di San Zenone all’Arco – Brescia; nel 2021 ReA! Fair, REA Arte e Maryna Rybakova, alla Fabbrica del Vapore – Milano, In Absentia, a cura di Natalie Zangari, Giulia Palamidese e Paolo Sacchini, a Temù, Dualità nel trionfo. Una conquista o una perdita, a cura di Mino Morandini e del Borgo degli Artisti di Bienno, a Casa Valiga – Bienno; Kenopsia, a cura di Natalie Zangari, a Palazzo Palazzi – Brescia; nel 2020-2021 GestoZero. Istantanee 2020, a cura di Ilaria Bignotti, ACME Art Lab – Alessia Belotti, Melania Raimondi e Camilla Remondina -, Giorgio Fasol e Matteo Galbiati, a Museo di Santa Giulia (Brescia), Museo del Violino (Cremona) ed Ex chiesa di Santa Maria Maddalena (Bergamo).

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ACQUARIATERRAFUOCO. L’opera di Helidon Xhixha sul Lago d’Iseo

ACQUARIATERRAFUOCO
L'opera di Helidon Xhixha sul Lago d'Iseo

Dal 24 giugno all'1 ottobre 2023

Una mostra a cura di Ilaria Bignotti e Camilla Remondina

Con il patrocinio e sostegno del Comune d’Iseo

In collaborazione con Imago Art Gallery, Fondazione Cav. Lavoro Alberto Giacomini, Poliedro Studio e Le Giraffe Noleggi

 

Il Lago d’Iseo, nel territorio del Basso Sebino del Comune di Iseo e sul territorio di Clusane, ospita una mostra diffusa a carattere ambientale di sculture monumentali dell’artista Helidon Xhixha (Durazzo, 1970) e una sua mostra personale all’interno delle sale espositive della Fondazione l’Arsenale composta da opere scultoree a parete, bozzetti e una selezione di pubblicazioni consultabili.
È la prima volta che lo scultore di fama internazionale arriva a Iseo e sul suo territorio, ma anche più ampiamente nella Provincia di Brescia, dove mai era stato prima celebrato il suo linguaggio straordinario che adopera e manipola il metallo come se fosse un fluido alchemico capace di assumere forme e dimensioni di straordinaria potenza.
Sculture che dialogano con l’acqua e la terra, le architetture e la natura del paesaggio lacustre, grazie alle forme del metallo forgiato da Xhixha, capace di renderlo corpo rilucente e riflettente che si adagia armoniosamente nell’ambiente, svetta nello spazio e chiama a sé il paesaggio, coinvolgendo il pubblico ed il paesaggio in un rapporto di reciproco sguardo. Le sue opere, esposte nei più prestigiosi musei e siti culturali internazionali nel corso di oltre vent’anni di carriera, approdano sul Sebino con una leggiadra potenza e una maestosa sensibilità: alchimie della terra, raccontano una storia millenaria che pone in luce, oggi, anche i temi dell’ambiente e del suo rispetto. Pensiamo al grande Iceberg, che appare sul lungolago di Iseo, visibile dalla grande
passerella pubblica, e dichiarando la scottante centralità dei temi del clima e del global warming, ci invita a un percorso di conoscenza e di consapevolezza del bello naturale che ci circonda e che dobbiamo difendere.
L’acciaio, materiale di elezione di Xhixha, è materia resiliente che lo scultore sa piegare e modulare, estroflettere e curvare per assecondare le sue visioni plastiche: ora diventa colonna che pare accogliere le voci del mondo, obelisco dei valori di condivisione e umanità, come nel caso delle sculture Abbraccio di Luce e Lancio di Luce a Iseo e Obelisco di Luce a Clusane, ora si fa specchio della comunità, cassa di risonanza dei movimenti e dei gesti degli abitanti, come nel caso dell’opera Satellite nel passaggio dei portici di Piazza Garibaldi a Iseo.
Un progetto che si pone quale imperdibile appuntamento durante l’estate del 2023 in un ideale dialogo con quella grande, pioneristica installazione The Floating Piers di Christo: a sette anni di distanza, non solo la terraferma, ma anche l’acqua del lago di Iseo accolgono installazioni scultoree, in un percorso che sa coinvolgere il pubblico in un’esperienza emozionante e inattesa.

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FARE I CONTI CON IL RURALE. Edoardo Caimi, Marina Cavadini, Lucia Cristiani, Alice Faloretti, Oliviero Fiorenzi, Manuel Gardina, Nicola Ghirardelli, Edoardo Manzoni, Giorgio Mattia

FARE I CONTI CON IL RURALE

Dal 29 aprile all'11 giugno 2023

Una mostra a cura di Arnold Braho in collaborazione con Camilla Remondina e con il Patrocinio di Comune di Iseo e della galleria The Address

 

“Era il mondo ormai a essergli diverso, fatto di stretti e ricurvi ponti nel vuoto, di nodi o scaglie o rughe che irruvidiscono le scorze, di luci che variano il loro verde a seconda del velario di foglie più fitte o più rade, tremanti al primo scuotersi d’aria sui peduncoli o mosse come vele insieme all’incurvarsi dell’albero. Mentre il nostro, di mondo, s’appiattiva là in fondo, e noi avevamo figure sproporzionate e certo nulla capivamo di quel che lui lassù sapeva […]” (Italo Calvino, Il barone rampante, 1957)

 

Per fare i conti con il rurale e in senso più ampio con la natura, che è la principale attrice all’interno della ricerca degli artisti presenti nel progetto espositivo, bisogna fare un cambiamento di prospettiva verso le cose che costituiscono il mondo. Le modalità tramite cui percepiamo l’ambiente rurale e le strutture ecosistemiche, che compongono la nostra concezione di territorio, sono fortemente influenzate dalle scale di relazione a cui dobbiamo sottostare, rapporti che sono spesso disallineati a causa della mancanza di coordinate culturali per poterci orientare all’interno di queste conoscenze e pratiche. I meccanismi culturali che abbiamo prodotto ci consentono di decodificare la natura solamente attraverso l’osservazione di frammenti di realtà, permettendoci così di percepirla principalmente come oggetto di consumo, piuttosto che di conoscenza. Come orientarsi allora all’interno di queste cartografie naturali? Come vivere il corpo? Come concepire diversamente il tempo e la memoria? Come pensare invece le relazioni e i desideri? Come essere insieme?

La moltitudine di elementi che caratterizza la cosmologia di ricerche presenti all’interno del progetto Fare i conti con il rurale è prodotta dall’insieme delle relazioni poietiche, politiche, sensoriali, cognitive, emotive, e, grazie ad un certo grado di sensibilità verso la natura, viene inteso come luogo per la produzione del contemporaneo. Le ricerche si propongono come esperienza accumulata all’interno di un determinato contesto, con opere che, attraverso i vari linguaggi proposti, fondano la loro estetica e modalità d’espressione in un cambio di scala, capace di allinearsi a quello della natura, al suo tempo, ai suoi concatenamenti, alla sua memoria.

 

Il paesaggio come lascito dell’impronta collettiva e la decodificazione di cartografie mnemoniche, quanto l’analisi delle possibilità insite all’interno di questo tessuto stratificato, si materializzano in termini scultorei e installativi all’interno della ricerca artistica di Lucia Cristiani (Milano, 1991), mentre per Nicola Ghirardelli (Milano, 1996) la matericità opera sulla natura mediante tecniche e saperi antichi che riemergono ricontestualizzando strutture simboliche desuete, dando nuovo significato e inserendo in una nuova storia immagini ed elementi naturali.

Il focus ravvicinato dei movimenti e delle strutture di esseri vegetali e animali eseguiti da Marina Cavadini (Milano, 1988) mettono in luce la sensibilità e la fragilità degli ecosistemi, fornendo una rappresentazione di resilienza intrinseca in alcuni esseri viventi presenti in ambienti ostili. Allo stesso tempo Edoardo Manzoni (Milano, 1993) pone al centro della sua ricerca un’analisi dei rapporti di interdipendenza tra uomo e animale, in questo sono la caccia e le pratiche millenarie di sopravvivenza ad essere analizzate, e di conseguenza le successive imitazioni, la mappatura dei territori, la progettazione di strumenti.

Oliviero Fiorenzi (Osimo, 1992) utilizza l’apparato semiotico per reintrodurre strumenti di comunicazione legati al gioco, un linguaggio dell’infante che opera come dispositivo di contatto con gli elementi naturali stessi come cielo, terra e acqua.

Per Edoardo Caimi (Milano, 1989) il linguaggio fonda le sue radici nel primitivo, nel tecnologico e nel tribale, attingendo alle culture delle periferie suburbane e rurali, fondendosi attraverso materiali industriali ed elementi naturali, in una cornice narrativa che immagina strumenti di sopravvivenza all’interno di un contesto post-apocalittico.

L’immaginario all’interno delle opere pittoriche di Alice Faloretti (Brescia, 1992) sembra porsi come la concatenazione tra vari tempi, la proposizione di una continuità all’interno dell’opera che guarda a passato, presente e futuro rimodulandone i principi di base, dove un immaginario dettato dalle trasformazioni della natura e degli agenti atmosferici si fonde con quello dell’esperienza personale e della memoria. Allo stesso tempo Giorgio Mattia (Milano, 1997) attua la sua ricerca verso un duplice fronte all’interno del proprio lavoro: da un lato una vigorosa sperimentazione verso strutture a sostegno di immagini fragili, dall’altro una minuziosa attenzione alle politiche della rappresentazione della natura e delle sue ipotetiche trasformazioni nel tempo.

Infine Manuel Gardina (Brescia, 1990) focalizza la ricerca sugli elementi naturali traducendone l’immagine attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie e media, riproducendo attraverso linguaggi programmatici una riflessione del confine tra naturale e artificiale, ponendo in discussione le relazioni emerse all’interno del discorso contemporaneo fra i due elementi.

 

Fare i conti con il rurale si manifesta come un progetto di ricerca, proponendo linguaggi pratici che operano all’interno del panorama italiano con l’intenzione di visualizzare modalità d’azione e di riproduzione. La necessità è quella di apprendere, dalla natura e dal rapporto con essa, saperi dimenticati, espandendo l’immaginario a forme e formati che non esistono all’interno delle istituzioni e cornici contemporanee. Lo sguardo si situa così con una certa radicalità all’interno di posizioni sociali che fondano le loro conoscenze ai margini, contribuendo a modalità di sostegno, e allo stesso tempo rivendicando modalità di esistenza dei “commons” e immaginandone di nuovi.

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